Eduardo De Filippo, ovvero una persona di famiglia

Dr.ssa Nevia Buommino, insegnante di Lettere

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Da bambina la festività natalizia iniziava l’8 dicembre, quando in un angolo del salotto vedevo allestire da mio padre il tradizionale presepe, così carico di significati e magia, mentre nell’aria si iniziava a respirare il profumo degli struffoli, dei roccocò e dei taralli – cioè i tipici dolci natalizi che si preparavano per quelle giornate di “gioia”, da trascorrere in casa coi parenti – e per le strade si ascoltavano gli zampognari con le loro litanie. Quindi, quasi a scandire un rituale non meno sacro degli altri, non mancava mai – tra un giro di tombola o di tornei di scopa – una serata in cui, prima o poi, le famiglie napoletane avrebbero riso e riflettuto vedendo Natale in casa Cupiello, l’esilarante e veritiera commedia di Eduardo De Filippo. Perché, come scrive Maurizio Giammusso, «Eduardo non è stato solo un gigante del teatro e un protagonista della cultura italiana del Novecento, è stato un uomo importante anche per il costume di un’epoca perché è entrato come pochi altri personaggi (Anna Magnani, Fausto Coppi, Federico Fellini) negli affetti familiari e nell’immaginario di tanti italiani». Infatti, l’attore commediografo napoletano con le sue commedie entrava nelle case, attraverso la televisione, come una persona di famiglia che con la sua ironia allieta e insegna, comprende e consiglia, ma soprattutto parla una lingua comune, fatta non solo di parole dialettali ma di sapori, odori, musiche che a Napoli chiameremmo tradizioni, che solo chi ha nel sangue sa riconoscere e distinguere. Eduardo nelle sue produzioni trasmette la napoletanità, la quotidianità e quegli spaccati di vita vissuta che perfino Goethe, osservando il popolo napoletano, vedeva come scene da commedia «da rappresentarsi con successo in qualsiasi teatro». Eppure quello di Eduardo è stato considerato subito ben altro che semplice teatro popolare, in quanto le sue commedie hanno dato origine all’unico teatro italiano di massa, perché insieme regionale e nazionale, popolare e borghese. Già nel 1956 Corrado Alvaro definiva Eduardo «il napoletano che si trova a impersonare l’uomo di oggi», ovvero «l’eroe di tutti i giorni». Sicché volendo indicare all’estero un teatro che trasmette «l’essenza della vita italiana dopo la guerra», sceglieremmo senza dubbio Eduardo che «sotto la favola scenica» proietta «la favola della vita italiana». Inoltre «se il linguaggio di queste opere», scrive Giulio Trevisani, «è fondamentalmente dialettale, e napoletana è l’ambientazione, lo spirito che le anima è universale ed è questa la caratteristica che ha dato al teatro di Eduardo il segno della poesia e il diritto di cittadinanza nel teatro di ogni Paese». Questo perché fu scopo e merito suo l’aver svincolato la più brillante tradizione napoletana della commedia dell’arte dall’ambito locale e folcloristico, per avvicinarla alle più elevate forme del teatro contemporaneo. E determinante per ciò fu il suo incontro con Pirandello – avvenuto nel 1933 al teatro Sannazzaro – del quale mise in scena Il berretto a sonagli, il cui rivoluzionario teatro gli apriva ampi spiragli di riflessione su i coevi temi della solitudine e incomunicabilità dell’uomo moderno, oltre a sensibilizzarlo sul ruolo e le forme dell’operato artistico in una società che, sempre più, richiedeva schieramenti politici precisi, perfino a chi come lui si dichiarò nelle sue finalità al di sopra di ogni strumentalizzazione ideologica.

«Eduardo De Filippo, eminente uomo di teatro, riassume nella sua personalità tre figure rimaste, nella pratica del palcoscenico, isolate e divise, ma che, dal Ruzante a Molière, ai nostri comici dell’arte, costituirono gli elementi essenziali della drammaturgia: l’autore, l’attore e il regista»: è l’inizio della relazione dell’Accademia Nazionale dei Lincei, letta per il conferimento del Premio Internazionale “Antonio Feltrinelli” 1972 per il Teatro a Eduardo, che sintetizza egregiamente la poliedricità di questo artista, dalla personalità complessa e talora in contrasto con la simpatia che i suoi personaggi suscitano quasi sempre. In quanto, alcuni che hanno conosciuto Eduardo di persona hanno sperimentato anche aspetti del suo carattere che si potrebbero definire misantropi. Ma la severità e la durezza che Eduardo usava con quelli che lavoravano con lui era forse solo una parte di quella che egli riservava a se stesso, per quell’innato perfezionismo che non lo rendeva mai pienamente soddisfatto dei suoi risultati. Così in ‘O Canisto del 1971 egli dice: «l’attore muore senza poter dire di aver raggiunto la perfezione. Egli dà al pubblico il risultato della sua continua esperienza, ma tale esperienza, nel momento in cui si raggiunge, diventa fatto superato»; idea che ripeterà in un’intervista: «l’attore cerca la parte tutta la vita senza mai trovarla. Voglio dire che egli tende alla perfezione e talvolta crede di averla trovata, ma se continua a recitare vuol dire che la cerca ancora. Come attore tendo alla perfezione, come autore so che non la troverò mai». Malgrado ciò Eduardo raggiunse livelli eccelsi con gratificanti riconoscimenti da parte del mondo culturale (tra i tanti premi: il Simoni, il World Theatre Season a Londra, le lauree honoris causa all’Università di Roma e a quella di Birmingham) e delle autorità italiane e europee (Cavaliere di Gran Croce e Senatore della Repubblica in Italia, Légion d’honneur in Francia), ma soprattutto il suo pubblico lo apprezzò e lo amò così tanto che nel 1974, quando l’artista subì un’operazione al cuore, ricomparso sul palcoscenico dopo appena 22 giorni dal delicato intervento gli spettatori ebbero paura di applaudire per evitargli emozioni troppo forti. Nino Longobardi testimoniò in un articolo su “Il Messaggero” quella memorabile serata del 27 marzo: «Si aveva timore di applaudire […] di provocare in Eduardo emozioni troppo forti, tumulto di sentimenti, la piena di una travalicante gioia […]. Il pubblico sentiva, intuiva, che all’attore, al gran cuore di Eduardo doveva essere evitata l’emotiva violenza insita, scaturente da applausi troppo scroscianti e troppo prolungati. Ma non sempre riusciva a frenarsi. Eduardo era lì, di nuovo sotto le luci della ribalta, vispo, arzillo, bravo come sempre, padrone del suo volto scavato, che esprimeva soltanto ciò che l’attore gli permetteva di esprimere e sul quale l’arte, a comando, può cancellare persino i segni dell’umana sofferenza».

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